Un paio di jeans Levi’s costa circa 100 euro, uno identico senza etichetta ne costa 35. Stesso cotone, stesse cuciture, stesso taglio. La differenza di 65 euro è pura brand equity: il valore che il marchio aggiunge al prodotto nella mente del consumatore.
In un mercato dove prodotti e servizi si assomigliano sempre di più, il vero vantaggio competitivo si gioca spesso su un elemento intangibile ma decisivo: la percezione.
La brand equity, ovvero il valore che un marchio è in grado di generare nella mente dei clienti, nella fiducia degli investitori e nella valutazione economica complessiva di un’azienda.
Non è solo un concetto da marketer, chiunque voglia vendere, acquistare o valorizzare un’impresa deve saper leggere (e costruire) l’equity di un brand. Perché può fare la differenza tra una trattativa discreta e un’operazione davvero redditizia.
Indice dei contenuti
Che cos’è la brand equity
La brand equity rappresenta il valore che un marchio assume grazie alla percezione positiva che clienti e mercato hanno di esso. È un asset immateriale, che nasce dalla somma di elementi come la notorietà, la reputazione, l’affidabilità percepita, le emozioni che il brand suscita.
Non va confusa con il logo o il nome registrato: un brand può essere formalmente protetto ma privo di equity, se nessuno lo conosce o se non genera alcuna relazione significativa con il pubblico.
Pensiamo a due ristoranti situati nella stessa via, con lo stesso tipo di cucina e prezzi simili. Uno è nuovo, sconosciuto, l’altro ha 15 anni di storia, recensioni eccellenti, clienti abituali e una presenza curata online. A parità di numeri nel breve periodo, l’impresa con il brand più riconosciuto vale di più, perché porta con sé una fiducia già costruita. Questo è brand equity.
Lo stesso principio vale anche per attività più strutturate, come nel caso di una catena di centri estetici in franchising: chi compra il punto vendita non acquista solo arredi e macchinari, ma anche il potere attrattivo del nome, la clientela fidelizzata, l’autorità accumulata nel tempo.
I modelli per capire e misurare la brand equity
Nel tempo, diversi studiosi hanno cercato di codificare questo concetto in modelli utili alla misurazione e alla gestione.
1. Il modello di Aaker
David Aaker ha individuato cinque dimensioni principali:
- notorietà del brand;
- fedeltà alla marca;
- qualità percepita;
- associazioni di marca;
- altri asset (es. brevetti, relazioni con i canali).
Questo modello aiuta a costruire e monitorare il valore del brand nel tempo.
2. La Customer-Based Brand Equity (CBBE) di Keller
Kevin Lane Keller ha proposto una piramide composta da quattro livelli:
- Awareness: quanto il brand è riconoscibile;
- Associazioni di significato: cosa evoca nella mente dei clienti;
- Risposta del cliente: giudizi, sentimenti;
- Resonance: il legame profondo e duraturo con il brand.
Solo i brand che arrivano all’ultimo livello sviluppano una vera brand equity, capace di influenzare le decisioni d’acquisto.
3. Il prisma di Kapferer
Kapferer analizza l’identità del brand su sei facce: fisico, personalità, cultura, relazione, riflesso e immagine di sé. È utile per lavorare in modo coerente sulla costruzione dell’identità, che è la base su cui poggia l’equity.
A cosa serve la brand equity
La brand equity ha ricadute tangibili sulla performance dell’azienda.
Un brand con alta equity può permettersi di applicare prezzi più alti, ridurre i costi di acquisizione cliente, ottenere condizioni migliori con distributori o investitori. Ma soprattutto, può contare su una fidelizzazione duratura, che rende i ricavi più stabili e prevedibili.
Un caso concreto: nel settore delle lavanderie automatiche, un marchio come Wash&Go, con una rete diffusa, materiali coordinati e recensioni positive consolidate, riesce a vendere ogni nuovo punto vendita a una cifra sensibilmente più alta rispetto a un concorrente privo di nome riconoscibile, anche a parità di fatturato.
La differenza non sta nei numeri, quindi, ma nel “peso” del brand nella testa del cliente finale.
La brand equity è anche uno scudo nei momenti di crisi, quando la concorrenza abbassa i prezzi o il mercato si contrae, un brand forte mantiene la fiducia dei propri clienti. Questo vale nei settori più diversi, dal food delivery alle soluzioni software in abbonamento.
Il valore del brand quando si vende o si compra un’azienda
In una compravendita, la brand equity può fare una differenza sostanziale, anche quando non appare immediatamente nei numeri di bilancio.
Chi acquista un’azienda, infatti, non compra solo asset materiali o clienti attivi: compra una storia, una reputazione e una percezione di valore già consolidata nel mercato.
Questo è evidente, ad esempio, nel settore dell’ospitalità. Un agriturismo con decine di recensioni positive, presenza su riviste di settore, un sito curato e un’identità visiva riconoscibile viene percepito come più solido e rassicurante. Anche se il fatturato è simile a quello di una struttura concorrente senza una vera identità, il primo attirerà acquirenti disposti a pagare di più. Perché il passaggio di proprietà non azzera la fiducia costruita.
Durante una due diligence, la brand equity viene valutata sia in modo qualitativo (analizzando reputazione, presenza online, riconoscibilità), sia attraverso metriche quantitative che rilevano la capacità del brand di generare ricavi nel tempo.
In settori B2B come la consulenza o la produzione industriale, il brand può essere legato alla figura del fondatore o a un posizionamento molto specifico. In questi casi, l’equity può essere più fragile, ma non per questo irrilevante.
Brand equity e valorizzazione strategica prima della vendita
Un’impresa che intende vendere nei prossimi mesi o anni ha tutto l’interesse a rafforzare la propria brand equity per aumentare l’attrattività e giustificare una valutazione più alta. Ma costruire equity non significa solo “comunicare meglio”, ha a che fare con la coerenza tra ciò che l’azienda è, ciò che fa e ciò che promette.
Ci sono alcune azioni strategiche che possono incidere concretamente:
- rendere riconoscibile l’identità visiva e narrativa, lavorando su logo, naming, tono di voce e coerenza su tutti i canali;
- coltivare la relazione con i clienti, stimolando recensioni, feedback pubblici, passaparola e contenuti generati dagli utenti;
- rafforzare la presenza online, non solo sui social, ma anche con contenuti utili, storie aziendali, valori dichiarati e motivazioni forti;
- misurare e migliorare la reputazione, monitorando la percezione del brand nel tempo.
Branding, posizionamento ed equity: differenze da chiarire
In una strategia di vendita o valorizzazione aziendale, è fondamentale non confondere termini spesso usati in modo intercambiabile, ma che indicano concetti distinti e complementari.
La brand identity è il ritratto che l’azienda dipinge di sé stessa, costruito attraverso elementi precisi: i valori fondamentali che proclama, la missione che dichiara di perseguire, la personalità che vuole incarnare, il tono di voce che usa per comunicare, l’estetica visiva che adotta (logo, colori, design) e il posizionamento competitivo che sceglie. È la strategia, il progetto, l’intenzione deliberata, il branding.
Apple vuole essere innovativa e minimalista, Nike punta su performance e determinazione, Patagonia si posiziona come sostenibile e autentica. Questa è l’identità che costruiscono consapevolmente attraverso ogni scelta di comunicazione e design.
La brand image, invece, è quello che realmente pensano di te i tuoi clienti, il posizionamento. È il risultato di ogni interazione: dalla qualità del prodotto che hanno tra le mani, al tono dell’assistenza clienti, dalla pubblicità che vedono ai commenti che leggono online.
È la reputazione vera, quella che si forma nelle conversazioni al bar e nelle recensioni su Google, spesso molto diversa da quella che l’azienda vorrebbe avere.
La brand equity è il passo successivo: è il valore economico tangibile che nasce quando questa percezione (image) si traduce in comportamenti concreti dei consumatori. Fedeltà al marchio, disponibilità a pagare un prezzo premium, raccomandazioni spontanee, resistenza alle offerte della concorrenza.
In altre parole, l’identity è quello che vuoi essere, l’image è quello che sei nella mente delle persone, l’equity è quanto questo vale in euro.
Il gap tra questi elementi è cruciale: quando identity e image coincidono e generano equity positiva, hai un brand solido. Quando divergono, hai un problema di credibilità che può costare molto caro.
Come misurare e comunicare il valore del brand a investitori e acquirenti
Se l’obiettivo è vendere, il valore della brand equity va reso visibile e comprensibile anche a chi guarda l’impresa da fuori. Questo significa quantificare, documentare e comunicare.
Alcuni strumenti utili:
- Report di brand awareness e reputazione online (analisi social, sentiment, traffico diretto).
- Indicatori di fedeltà come il tasso di ritorno clienti o il Net Promoter Score (NPS).
- Dati sulle performance di comunicazione, come il coinvolgimento sui canali digitali o la crescita organica del pubblico.
- Confronti con benchmark di settore per mostrare vantaggi competitivi costruiti nel tempo.
Queste informazioni possono essere raccolte in un brand audit o in una sezione dedicata dell’Information Memorandum. Quando ben presentata, la brand equity diventa un argomento forte in fase di trattativa, perché racconta non solo cosa fa l’azienda, ma chi è diventata nella mente dei suoi clienti.
Il brand è un asset, non un dettaglio
Spesso si pensa che la brand equity sia qualcosa che conta solo per le grandi aziende. Non è così. Anche per una piccola impresa, per un’attività locale o per una PMI B2B, il brand può rappresentare un moltiplicatore di valore reale.
Per chi compra, è un acceleratore. Per chi vende, è una leva.
Chi costruisce un brand solido oggi, costruisce una trattativa migliore domani, e nelle operazioni di M&A, la fiducia non si compra: si eredita. Il brand è il suo contenitore più duraturo.
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Nel processo di acquisizione, valutare correttamente la brand equity può aiutarti a scegliere meglio, negoziare con più forza e investire su realtà che hanno già costruito fiducia e posizionamento.
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